Prima di chiarire meglio i concetti teorici che stanno alla base dell’adattamento, è opportuno chiarirne un concetto cardine, che ne costituisce le fondamenta. La capacità di adattamento dell’essere umano è comunemente espressa da uno stato particolare di equilibrio organico globale, che comprende fenomeni nervosi, endocrini, cardiovascolari e sistemici molto complessi.  

Le basi dell’adattamento – L’omeostasi 

Questo equilibrio si definisce omeostasi ed altro non è che la costanza di ogni funzione organica, risultato di un intervento regolatore capace di mantenere quella determinata funzione al livello del massimo conforto e rendimento possibile. L’omeostasi, quindi, viene garantita da un complesso gioco di regolazioni nervose ed endocrine adatte a stabilire (o ristabilire) i parametri fisiologici ritenuti fondamentali nella metodologia dell’allenamento. Di conseguenza, i meccanismi omeostatici devono essere capaci di una certa elasticità di regolazione, affinché lo stato di equilibrio dell’organismo, a causa del repentino cambiamento delle condizioni ambientali, non oscilli oltre i limiti che lo caratterizzano come stazionario.  

Le basi dell’adattamento – Esempio di omeostasi 

Si pensi, ad esempio, alla temperatura corporea. Seppur con minime variazioni circadiane è pressoché costante intorno ai 37 gradi. Ma cosa succede quando uno o più fattori intervengo a rompere questo equilibrio? Avviene che il nostro organismo mette in atto una serie di accorgimenti, volontari e inconsci, al fine di riportare questa costante ai suoi livelli. Ed ecco che se la temperatura esterna fosse molto alta, e il nostro organismo corresse il rischio di andare in ipertermia, cominceremmo a sudare per disperdere calore. Viceversa, se la temperatura fosse molto bassa, con il rischio di ipotermia, il nostro organismo reagirebbe concentrando il flusso sanguigno verso gli organi vitali (a discapito delle estremità) e producendo i brividi (ovvero un meccanismo di contrazione muscolare involontario atto a produrre calore).  

Dunque, l’omeostasi deve essere vista come un insieme coordinato cui, a seguito di uno stimolo che va ad alterare l’omeostasi stessa, fa seguito la risposta dell’organismo atta a ripristinarne l’equilibrio perso e così via. 

Tuttavia, questa relazione stimolo-risposta avviene solo ed esclusivamente in presenza di uno stimolo biologico di entità tale da mettere in difficoltà il mantenimento dell’omeostasi organica stessa. Anche l’allenamento stesso, quindi, richiederà la somministrazione di esercizi fisici quantitativamente e qualitativamente adeguati a perturbare equilibrio organico. Uno stimolo che se dal punto di vista quantitativo e qualitativo sarà scarso non comporterà alcun tipo di cambiamento; viceversa porterà ad uno stato di eccessivo (e non funzionale) sovraccarico organico. 

Le basi dell’adattamento – La sindrome generale d’adattamento 

Gli adattamenti indotti dall’allenamento sono il risultato della ripetizione sistematica, organizzata e strutturata degli esercizi fisici ed ogni cambiamento è legato alla natura, intensità e durata dell’esercizio stesso. In pratica, ogni stimolo allenante comporta un adattamento di tipo acuto, la cui reiterazione nel tempo porterà ad adattamenti cronici, che persisteranno per un certo periodo di tempo anche se lo stimolo dovesse essere interrotto. 

Ogni stimolo dovrebbe essere considerato come un’aggressione all’organismo, che reagisce difendendosi e sviluppando una reazione d’allarme, da cui deriva l’attivazione di diversi sistemi dell’organismo (ad esempio il sistema muscolo-scheletrico, cardiovascolare e neuroendocrino) che tramite una serie di risposte ed attivazioni “a cascata” portano a degli adattamenti. 

Le basi dell’adattamento – Gli stressar

Come descritto da Hans Selye, il suddetto processo altro non è che la risposta che l’organismo attua in risposta agli effetti prolungati di uno o più stressar, come ad esempio uno stimolo fisico, e viene definito come sindrome generale d’adattamento. Sempre secondo Selye, l’evoluzione di questa sindrome avviene in tre fasi: 

  1. l’organismo risponde agli stressar mettendo in atto meccanismi di difesa. Si pensi, ad esempio, all’aumento immediato della frequenza cardiaca con l’inizio dell’esercizio fisico. Questa fase è definita di allarme;
  2.  l’organismo tenta di contrastare gli effetti degli stressar, producendo risposte specifiche. Si pensi, ad esempio all’equilibrio che viene raggiunto dalla frequenza cardiaca durante un esercizio prolungato submassimale ad intensità costante. Questa fase è definita di resistenza; 
  3. l’ultima fase, potenzialmente la più dannosa e controproducente, si ha se gli stressar continuano ad agire nonostante l’organismo sia entrato in una fase di esaurimento. In maniera ancora più particolareggiata, questa sindrome generale d’adattamento si può descrivere come una reazione aspecifica o specifica. La differenza è solo in funzione dell’agente stressante (lo stimolo) che agisce sull’organismo. 
  • Si parlerà quindi di reazione aspecifica quando si avrà una sindrome generale d’adattamento comune a tutti gli stimoli. Si pensi, ad esempio, all’aumento della temperatura corporea a seguito dell’inizio di un esercizio fisico; essa aumenta indipendentemente dalla natura dell’esercizio fisico stesso.
  • Si parlerà, invece, di reazione specifica quella che è peculiare di un particolare esercizio fisico. Si pensi, ad esempio, all’aumento della concentrazione di lattato a seguito di un allenamento di potenza lattacida. 

L’allenamento, quindi, può benissimo essere considerato uno stressar, in quanto durante ogni seduta di allenamento c’è l’azione di un agente stressante (l’esercizio fisico) sull’organismo dell’atleta, con conseguente reazione dell’organismo stesso. 

Occorre fare un ulteriore distinzione, a questo punto; ovvero tra stressar esterno e stressar interno. 

Per stressar esterno intendiamo quello che possiamo oggettivamente misurare. Si pensi, ad esempio, al tempo o alla distanza; e quindi a correre per un’ora o percorrere 1000 metri in un dato tempo. 

Per stressar interno, invece, intendiamo l’effetto che lo stressar esterno ha sull’organismo. Si pensi, ad esempio, al numero di battiti della frequenza cardiaca che comporta percorrere i mille metri in un dato tempo. Molti sono portati a pensare che questi due tipi di stressar siano la stessa cosa; ma non è così. Questo perché lo stressar interno è la naturale conseguenza di quel lo esterno ed è quello che bisognerebbe ricercare in ogni piano di allenamento perché conosceremmo esattamente la risposta del nostro organismo alla somministrazione dell’esercizio fisico e quindi l’adattamento del nostro organismo. 

Tuttavia, non bisogna commettere l’errore nel pensare che l’allenamento porti ad una sindrome generale d’adattamento specifica. Questo perché per ogni agente stressante somministrato (anche il più specifico possibile) l’organismo dell’atleta reagirà in maniera mista, sia specifica allo stimolo, che aspecifica, agendo sui quei meccanismi non direttamente implicati nel processo di allenamento specifico.

Si pensi, ad esempio, ad un esercizio di resistenza; non intervengono solo i meccanismi di regolazione cardio-respiratoria e cardio-circolatoria, ma anche meccanismi muscolari. Di conseguenza, ogni programma di allenamento dovrebbe tenere in considerazione sia gli effetti specifici (ovvero gli adattamenti) sia quelli aspecifici (ovvero l’insieme di quelli stressar aspecifici che un particolare tipo di allenamento può comportare). 

Ma quali sono gli adattamenti importanti e funzionali alla metodologia dell’allenamento? 

Per rispondere a questa domanda è bene sapere che ne esistono di due tipi: 

  1. uno definito genetico e che dipende dagli effetti dell’evoluzione dell’uomo e, quindi, assume un carattere di ereditarietà;
  2. uno extragenetico (o fenotipico) che è la conseguenza dell’adattamento stesso, derivando da precisi stimoli.

Sono proprio gli adattamenti extragenetici che si ricercano con l’allenamento, da un punto di vista: 

  • metabolico: e che quindi fanno riferimento a tutte le modificazioni che seguono immediatamente la somministrazione di uno stimolo, ad esempio gli aggiustamenti cardiorespiratori oppure le modificazioni biochimiche; 
  • epigenetico: ovvero l’insieme delle diverse modificazioni date dal reiterarsi nel tempo dello stimolo aggressivo e che sono rilevabili confrontando i parametri funzionali e metabolici prima e dopo un periodo di allenamento specifico. 

È molto probabile che, fra i cambiamenti provocati da un dato stimolo allenante, ci sia anche quel segnale di tipo biologico che costringe l’organismo a operare, a livello strutturale e biomolecolare, quegli adattamenti che permettono all’organismo stesso di operare in maniera più efficace ed efficiente. 

Per il momento chiudiamo queste prime nozioni sulle basi dell’adattamento, utili al preparatore atletico ma anche ad ogni sportivo che voglia comprendere meglio gli effetti dell’allenamento sul proprio organismo.

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